di Luciano Armeli Iapichino
Gianluca Manca: "Una giustizia ritardata, una giustizia negata"
Queste righe non faranno riferimento alla sentenza, prevedibile, di condanna per Monica Mileti a 5 anni e 4 mesi, pronunciata dal tribunale di Viterbo in queste ore, rea di aver ceduto all’urologo siciliano, asceso a “assuntore occasionale di eroina”, una dose letale.
Non parleranno di un processo in cui la famiglia è stata estromessa come parte civile sin dalle prime battute, né dell’avvicendamento di “testi”, anomali, - se è lecito definirli così.
Né si parlerà del referto autoptico sul cadavere di Attilio Manca di Dalila Ranalletta, un’illuminante pagina di letteratura medica; né di verbali di polizia “attestanti” la presenza del medico all’ospedale Belcolle di Viterbo nello stesso periodo in cui Bernardo Provenzano era sottoposto in Marsiglia a un intervento alla prostata, e poi smentiti.
Né, queste righe, faranno riferimento all’evidente martirio di un cadavere maltrattato sbattuto in faccia ad un’intera nazione, di presunti esami tricologici e di pentiti che indicano tutt’altra verità, con tanto di mandanti e moventi.
Tutta fantasia! Ci mancherebbe ...
Anzi, il tutto è stato svolto con “scrupolo e abnegazione”. Certamente ...
Non si parlerà della forma, né della sostanza, che di certo non è quella stupefacente.
Né si dirà, più di tanto, che a Roma, la Procura nazionale antimafia, per lo stesso morto ha aperto, qualche mese fa, un fascicolo contro ignoti per omicidio.
Probabilmente un’anomalia, questa, del sistema-nazione: un morto, due procure, due procedimenti antitetici.
No, non stancheremo con la solita tiritera dei tecnicismi procedurali, delle stranezze quasi evidenti, delle alienate conclusioni della Commissione Parlamentare Antimafia sul merito o della follia di una madre e di qualche intellettuale al seguito.
E non si parlerà, neanche, di coscienza, ovvero della valutazione morale di ognuno sul proprio modus agendi, sulla propria onestà in quanto padre, pubblico ministero, giudice, accusatore, calunniatore o altro.
Né di paura! La codardia non è degli uomini di legge!
E non si parlerà di vergogna, un termine, di certo, incompatibile alle “nobili” istituzioni e a quelle aule in cui in alto e in tutta evidenza campeggia la scritta La legge è uguale per tutti, con omesso, ovviamente, il punto interrogativo finale.
Né delle sentenze lette con l’incipit In nome del popolo italiano.
Perché di quale popolo, o parte di esso, si tratti, davvero non lo immaginiamo. O forse sì!
Si parlerà, in queste poche righe, di un altro processo. Quello alla civiltà.
Un processo in cui imputate sarebbero le Alte Istituzioni di una nazione, ree di aver consentito, con complici silenzi e spalle girate al morto, alla famiglia, al popolo, ciò che definibile non è.
Istituzioni mascariate che hanno lasciato proseguire un’ignominia giudiziaria tra le più volgari del secondo dopoguerra.
Una vera e propria mattanza del diritto che nessuna ragion di stato, nessuna, di machiavellica memoria, avrebbe potuto o dovuto assecondare. Nessuna!
Una ragion di stato, affermata con prepotenza a vari livelli - e francamente con scarsa astuzia e in cui, a volte, si è avuta l’impressione che l’imbarazzo serpeggiasse oltre le maschere - e in cui le Istituzioni, quelle vere e nobili, sono state sottratte senza scrupolo alcuno “alla giurisdizione della coscienza”.
E la nazione è anche quella di Sergio Mattarella.
Il caso dell’urologo siciliano, Attilio Manca, non si dissolverà nel tempo con una sentenza. Tutt’altro!
È proprio la sentenza, almeno questa, a inserirlo a pieno titolo nella Storia della Giustizia d’Italia, al capitolo, Assassinio delle Istituzioni, diventando il vessillo di quel popolo che non vuole pagare con la vita né con il fango l’arroganza del potere deviato.
Attilio Manca, forse non è stato, non è e non sarà l’unico.
E viene in mente un processo. Un altro. Contro Verre, duemila anni fa. Una vicenda giudiziaria tra la Sicilia e il Lazio e una città come epilogo, Marsiglia. Che coincidenza. Depistaggi, forzature, omissioni, e poi, comunque, il trionfo della verità. E lì l’accusa era portata avanti da un certo Marco Tullio Cicerone. Di certo, non pavido e homo scrupoloso. Ma questa è un’altra storia e con personaggi diversi, nell’ossatura, nella schiena e nella coscienza.
E laddove l’accusa ha fatto l’interesse del popolo. Quello siciliano. E dei morti.
Di fantasia, in tanti, adesso, dovrebbero parlare dinanzi agli occhi spenti di quel corpo: una persona, una dignità, un medico e un figlio. Se ne abbiano il coraggio ... e anche questa è un’altra storia.
E questo non vuol dire non rassegnarsi alla morte di quel ragazzo.
Le anomalie sono tante. Troppe. Oltre ogni ragionevole certezza.
“Parcere subiectis et debellare superbos”, “risparmiare i sottomessi e abbattere i superbi” era la regola pronunciata da Cicerone in una di quelle orazioni.
L’impressione, al contrario, in quest’attacco preoccupante alla civiltà e alla giustizia è che da tredici anni ci sia stata, nelle aule dell’imparzialità, come per le staffette, un passaggio di testimone scomodo, rappresentato da una croce che in un modo o nell’altro si doveva piantare nel fango di una verità altra. Oggi finalmente - per qualcuno - il traguardo è arrivato.
Nessuna croce, nessun fardello pesante ereditato da trascinare ancora a spalla.
Da oggi, come hobby, qualcuno potrebbe dedicarsi alla ricerca di altro: sul dizionario, il significato dei termini coscienza, vergogna, imbarazzo, complicità, iscariota. E annusare, senza inibizioni e paure, da uomini e non da struzzi, il reale termometro di una nazione sul caso Manca.
La sentenza! Sì.
Quella ribaltata di Cicerone: a essere risparmiati sono stati i superbi.
E i killer.
Vorrei solo aggiungere: adesso sfigurateci tutti!
Scusateci, correggo: adesso drogateci tutti!
Sulla "fantasiosa", riferito a ogni altra ipotesi su questo processo, Egregio Procuratore capo, Dott. Auriemma, la storia, purtroppo, la smentirà. E ci auguriamo che sia il solo.
Così il fratello di Attilio Manca, Gianluca, raggiunto al telefono.
"In quanto giustizia ritardata quella di oggi è senza dubbio una giustizia negata che sopraggiunge dopo 13 anni dalla morte di Attilio, infangandolo e uccidendolo per la seconda volta. Attilio, oggi, è per le Istituzioni più morto di prima".
Come scrive Lyndon Baines Johnson:
"Il problema non è fare la cosa giusta.
E’ sapere quale sia la cosa giusta".
E questo magistrato, forse, non sapeva quale fosse la cosa più giusta.
In foto: Attilio Manca insieme ai genitori, Angelina e Gino
Tratto da: antimafiaduemila.com