di Lorenzo Baldo
E' il 12 febbraio 2004. A Viterbo, in un appartamento di via Monteverdi viene ritrovato il cadavere di Attilio Manca. Il corpo del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Me), che operava all'ospedale di Viterbo, è riverso trasversalmente sul piumone del letto, seminudo. Dal naso e dalla bocca è fuoriuscita un’ingente quantità di sangue che ha provocato una pozzanghera sul pavimento. Il volto di Attilio è stravolto: il setto nasale appare deviato, mentre sui suoi arti sono visibili macchie ematiche. A causarne la morte, come accertato dall’autopsia, l’effetto combinato di tre sostanze, presenti nel sangue e nelle urine di Attilio: alcolici, eroina e Diazepam (il principio attivo contenuto nel sedativo Tranquirit). Sul suo braccio sinistro i segni di due iniezioni. Per la Procura di Viterbo non c’è dubbio che si è trattato di un suicidio. Ma Attilio Manca è un mancino puro. Non ha alcun motivo per suicidarsi. E soprattutto dietro alla sua morte si intravede l'ombra di Cosa nostra. Il giovane urologo, specializzato nella tecnica laparoscopica, potrebbe aver assistito all’intervento alla prostata al quale nel 2003 era stato sottoposto Bernardo Provenzano in una clinica di Marsiglia, o quanto meno potrebbe averlo visitato prima o dopo l’intervento. Uccidendo il dottor Manca il boss di Corleone si sarebbe così liberato di un pericoloso testimone di quella trasferta. Certo è che nell’autunno del 2003 Attilio Manca aveva comunicato telefonicamente alla sua famiglia di essersi recato a sud della Francia senza però spiegare nei dettagli le motivazioni. Ma di quelle telefonate non c’è traccia. Così come di altre. A distanza di più di 10 anni il mistero è rimasto intatto. Chi è stato l’ultimo a incontrare il giovane urologo nel suo appartamento? E soprattutto: chi avrebbe avuto interesse a mettere a tacere per sempre Attilio Manca e per quali ragioni? Una mera questione di droga? O un “favore” richiesto da Cosa nostra? Sullo sfondo si intravedono gli apparati deviati di uno Stato che non ha alcun interesse a fare luce su questa strana morte. Perché l'allora capo della Squadra mobile di Viterbo, Salvatore Gava (già condannato per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz), aveva mentito sulla (falsa) presenza di Attilio Manca all’ospedale di Viterbo nel periodo durante il quale Provenzano veniva operato alla prostata in Francia? Dietro le quinte si muovono anche quegli ambienti “ibridi” di Barcellona Pozzo di Gotto da sempre crocevia di trame oscure di mafia e massoneria. Di contraltare ci sono due genitori ed un fratello che non hanno mai creduto alla tesi del suicidio e che da anni si battono per avere giustizia assieme a due indomiti avvocati come Fabio Repici e l'ex pm Antonio Ingroia. Ed è insieme a loro che inizia così un lungo viaggio alla ricerca della verità. Che fin da subito appare irto e pieno di insidie. Ripercorrendo le tappe salienti del caso, rileggendo le carte giudiziarie e riascoltando le loro testimonianze si intravede una debole luce in fondo al tunnel. Che indica la via da seguire per ottenere una volta per tutte giustizia e verità.
DAL 26 MAGGIO 2016 IN LIBRERIA
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Prefazione di don Luigi Ciotti
Ogni vittima innocente delle mafie è stata per la sua famiglia, i suoi cari, la sua cerchia di affetti una perdita incolmabile. A maggior ragione se alla perdita si è aggiunto – come è accaduto spesso – il vuoto di verità e giustizia, o persino la calunnia e la diffamazione a danno della vittima.
Mi riferisco a quelle vicende in cui non solo l’omicidio è rimasto impunito, ma è stato attribuito a una presunta seconda vita della persona, a un suo frequentare mondi e situazioni distanti dal ruolo svolto in pubblico.
Rischiò di essere vittima di questa macchinazione don Peppe Diana, del quale qualcuno scrisse, a cadavere ancora caldo, che era stato ucciso per una “storia di donne”, salvo essere smascherato per uno al soldo della stessa camorra che aveva assassinato don Peppe.
Ma penso anche a quelle vicende in cui un omicidio viene fatto passare, con fretta sospetta, come un suicidio, una conseguenza delle fragilità e delle debolezze della vittima.
È il rischio che tuttora incombe su Attilio Manca, di cui questo libro racconta la vicenda.
Non si può non restare sbalorditi di fronte alla meticolosa ricostruzione che ne fa Lorenzo Baldo. L’autore riporta e analizza una grande quantità di documenti, perizie, testimonianze, sentenze. Ma non si limita a questo. In un sapiente dosaggio di empatia e di documentazione, servendosi delle parole dei famigliari, degli amici, dei colleghi di lavoro, ci restituisce il ritratto della persona, ci fa comprendere il carattere di Attilio, il suo spessore umano.
Veniamo così a conoscere Attilio come un ragazzo profondo, sensibile, positivamente irrequieto, animato da molteplici interessi – la musica, la lettura, la scrittura – e con un innato talento a farsi benvolere. Studente di medicina dotato al punto che il professore con cui discute la tesi lo invita a trasferirsi per un periodo a Parigi, al fine di specializzarsi in una tecnica chirurgica d’avanguardia. Tornato in Italia, diventa presto un urologo affermato. Lavora prima a Roma, poi a Viterbo, dove però la mattina del 12 febbraio 2004 viene trovato a casa cadavere, due segni d’iniezione sul braccio sinistro e di violenza su diverse parti del corpo.
Non è mia intenzione – sarebbe superfluo, dopo l’analisi puntuale ed equilibrata di Lorenzo Baldo – entrare nel merito della vicenda giudiziaria e nella serie d’incongruenze e di omissioni che l’hanno caratterizzata: dal mancato rilevamento di alcune impronte digitali, alla palese stranezza, per un mancino come Attilio, di praticarsi un’iniezione di eroina nel braccio sinistro. Né dell’ipotesi che alla base della morte ci sia l’aver riconosciuto in Bernardo Provenzano il paziente ricoverato sotto falso nome in una clinica di Marsiglia, che lui, Attilio, avrebbe operato in una successiva trasferta Oltralpe.
Ma come cittadino che ha a cuore una giustizia non succube a poteri di sorta, non posso non pormi una serie di domande di fronte alla tesi sostenuta con forza dagli avvocati della famiglia Manca, ossia che le omissioni e le false piste dell’indagine sono collegate al fatto che fare luce sulla morte di Attilio Manca significa scoperchiare parte della cosiddetta trattativa Stato-mafia, avviata da Cosa nostra per chiedere, in cambio della cessazione della stragi, quella del regime di carcere duro per i boss.
Sono domande a cui la Direzione distrettuale antimafia di Roma, a cui è stato assegnato un ulteriore filone di indagini, mi auguro sappia rispondere. Sarebbe, oltre che una vittoria della verità, un giusto – per quanto incompleto – risarcimento ad Angela, Gino e Luca, i famigliari di Attilio, di cui ammiro l’enorme forza d’animo e la grande dignità, e che questo libro farà sentire meno soli.
Mi limiterò dunque a due considerazioni finali.
La prima riguarda la ricerca di verità, che non può essere solo compito della magistratura e delle forze di polizia. Tutti ne dobbiamo essere artefici, non certo calandoci nei panni degli investigatori, ma facendo la nostra parte di cittadini vigili e responsabili, affinché il bene comune non sia intaccato dalle zone d’ombra, da accordi sottobanco o trattative inconfessabili.
La seconda riguarda, la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”, che quest’anno si è svolta a Messina, nella terra della famiglia Manca, che risiede nei paraggi, a Barcellona Pozzo di Gotto, così come vicino a Messina vive quella di Graziella Campagna, anche lei vittima innocente delle mafie, a cui i Manca sono legati.
Ebbene proprio a Messina – come in altre città d’Italia, collegate il 21 marzo con il capoluogo della Sicilia orientale – Libera ha toccato con mano un esempio di quella cittadinanza vigile e responsabile: scuole, associazioni, membri dell’amministrazione e delle istituzioni, realtà di Chiesa e semplici cittadini si sono messi in gioco, desiderosi di mostrare il volto di una Sicilia pulita, ribelle ai giochi sporchi, alle zone d’ombra, alle complicità fra le mafie e i poteri corrotti, all’indifferenza e alla rassegnazione che le rendono possibili.
È bello pensarlo come un segno della presenza di Attilio, e come una tappa dell’impegno collettivo necessario per restituirgli verità e giustizia.
Tratto da: antimafiaduemila.com