di Lorenzo Baldo
Depositata l’istanza della Procura di Roma, una (nuova) pietra tombale sulla morte del giovane urologo
Sei mesi. Tanto è passato da quando Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca assieme a Fabio Repici, aveva anticipato pubblicamente la decisione del Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. “La procura di Roma si appresta – non lo ha ancora formalizzato – a richiedere l’archiviazione in merito alle indagini sull’omicidio di Attilio Manca. Lo dico fin d’ora: noi faremo opposizione contro questa richiesta di archiviazione. Non si può mettere una pietra tombale sull’indagine di Attilio Manca”. “Sono convinto – aveva sottolineato Ingroia –, e ci sono anche le prove, che Manca è stato ucciso dall’apparato mafioso istituzionale che ha coperto la latitanza di Bernardo Provenzanoprima del suo arresto! Per anni c’era chi aveva interesse a coprirne la latitanza perché Provenzano era il garante mafioso della trattativa Stato mafia. Questa è la verità! E’ possibile che non si sia trovato un ufficio giudiziario che si sia appassionato alla ricerca della verità? Neppure la procura nazionale antimafia a cui avevamo depositato un esposto... la speranza ora è rivolta a Nino Di Matteo”. Ecco quindi che quell’anticipazione si materializza oggi in un documento firmato dai magistrati romani Michele Prestipino, Cristina Palaia, con il visto del procuratore capo Giuseppe Pignatone, di cui viene data notizia sul sito del Corriere.it.
Chiudete il caso!
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che a vario titolo avevano circoscritto la morte di Attilio Manca all’interno di un disegno criminale intriso di mafia, massoneria e servizi segreti “deviati”? Per la procura di Roma quelle dichiarazioni “conducono a piste, presunti autori e modalità del fatto del tutto contrastanti e incompatibili, sostanzialmente prive di riscontri, non consentendo allo stato di risalire agli autori del presunto omicidio di Attilio Manca”. Le affermazioni del pentito Giuseppe Campo che aveva raccontato di essere stato incaricato personalmente di uccidere il giovane urologo, per poi essere informato che l’omicidio sarebbe stato commesso a Viterbo da altri sicari con la complicità del cugino di Attilio, Ugo Manca? Per i magistrati mancano “riscontri esterni” per dimostrare la presenza del cugino e di altri killer a Viterbo quel giorno di 14 anni fa. Gli inquirenti concludono laconicamente affermando che: “Non è possibile provare in alcun modo un effettivo coinvolgimento di Manca nelle cure di Provenzano, da cui far derivare la necessità di eliminarlo, e ancor più contraddittorie sono le risultanze in merito agli ipotetici autori”. Né tanto meno è possibile approfondire “la mancata spiegazione di alcuni particolari della complessa vicenda”. Fine della storia.
L’appello di 30.000 persone? Ignorato!
Al telefono Angelina Manca è svuotata. E’ una madre che non ha quasi più la forza per indignarsi: dolore, rabbia, e poi ancora quel senso di definitiva rassegnazione che cerca di attanagliarla. Accanto a lei Gino tace, il dolore sordo di questo anziano padre continua a consumarlo interiormente. Quel dolore che colpisce nuovamente anche Gianluca, il fratello minore di Attilio. Per la Procura di Roma il caso può essere chiuso. L’appello di 30.000 persone contro l’archiviazione? Ignorato! Ignorate quindi le firme di tante persone in prima linea: da don Luigi Ciotti a Salvatore Borsellino, da Letizia Battaglia a Vincenzo Agostino e tanti, tantissimi altri, tutti uniti in un’unica richiesta: non archiviate questo caso!
L’asse Viterbo-Roma
Un filo rosso unisce due procure che in questi anni si sono occupati della strana morte del giovane urologo siciliano. Per i magistrati viterbesi il decesso di Attilio Manca sarebbe attribuibile unicamente ad una overdose di eroina, punto. Ed è sempre il Tribunale di Viterbo che il 29 marzo dello scorso emette la sentenza di condanna a 5 anni e 4 mesi nei confronti della cinquantenne romana Monica Mileti accusata di avere ceduto la droga al medico siciliano. Al telefono la stessa Mileti ci aveva trasmesso una vera e propria paura a dover parlare del caso Manca: “Io Attilio l’ho amato, ma ora basta, mi lasci vivere… mi ha creato così tanti problemi averlo visto quel giorno e aver accettato quel passaggio…”. E di fronte alla domanda se si rendesse conto di essere una sorta di “capro espiatorio” dietro il quale si nascondono altri personaggi, aveva alzato la voce per affermare con convinzione: “Sì, lo so…”. E dopo aver insistito sul punto: “E' il momento di parlare, lo faccia per un padre e una madre che rischiano di morire prima ancora di avere un brandello di verità”, questa donna era rimasta un attimo in silenzio per poi interrompere la comunicazione.
Il fascicolo per omicidio
Se per Viterbo il caso è chiuso come morte per overdose, il fascicolo di Roma diceva tutt’altra cosa. E proprio le testimonianze di quei collaboratori di giustizia il cui valore, secondo la Procura di Roma, sarebbe definitivamente messo in discussione, meritano comunque di essere ricordate.
Giuseppe Campo
Qualche anno fa Giuseppe Campo, un ex picciotto della provincia di Messina, ha raccontato agli investigatori ed ai legali della famiglia Manca di essere stato incaricato lui stesso, a dicembre del 2003, di uccidere Attilio Manca, da un boss del messinese (Umberto Beneduce, indicato da alcuni rapporti di polizia come contiguo ad ambienti mafiosi barcellonesi, condannato in primo grado per droga nel maxi processo “Mare Nostrum” assieme al cugino di Attilio Manca, Ugo, entrambi assolti in via definitiva, ndr). Dopo un paio di mesi da quel primo incontro, all’ex picciotto sarebbe stato stato confidato che il giovane urologo siciliano era già stato ucciso a Viterbo e che tra i tre killer ci sarebbe stato anche Ugo Manca.
Da Giuseppe Setola a Carmelo D’Amico
Le dichiarazioni di Campo si aggiungono a quelle dell’ex boss dei Casalesi Giuseppe Setola (che per paura di ritorsioni poi ha ritrattato), a quelle dell’ex sodale di Provenzano, Stefano Lo Verso e infine alle affermazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico. Quest’ultimo nel 2015 ha rivelato agli inquirenti di essere stato messo a conoscenza del progetto omicidiario nei confronti di Attilio Manca a cui avrebbero preso parte esponenti di Cosa Nostra, apparati dei Servizi di sicurezza “deviati” in contatto con esponenti della massoneria.
Un esposto
L’inchiesta romana era essenzialmente basata sull’esposto dei legali della famiglia Manca in cui, al di là delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, venivano evidenziati particolari dati oggettivi che portano ad escludere in modo definitivo la tesi del suicidio a base di droga. “Buchi neri” che hanno inghiottito (per il momento) la verità: il mancinismo puro di Attilio Manca e l’inesistenza di una sua eventuale tossicodipendenza; l’assenza delle impronte digitali di Attilio Manca sulle due siringhe ritrovate nel suo appartamento; le eloquenti immagini del cadavere di Attilio Manca poco conforme ad una morte per overdose; la mancanza di prove della cessione di eroina da parte di Monica Mileti; la nota della Squadra mobile Viterbo che attesta un dato non veritiero e cioè che Attilio Manca era in servizio all’ospedale Belcolle di Viterbo nei giorni in cui Provenzano si trovava a Marsiglia. Non è così: dai registri del nosocomio risulta che nei giorni di fine ottobre 2003 in cui Provenzano veniva operato in Francia, Attilio Manca non era in servizio (l’ex capo della squadra Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, è stato successivamente condannato in via definitiva a 3 anni per un falso verbale alla scuola Diaz durante il G8 di Genova); l’intercettazione ambientale del 2007 tra Vincenza Bisognano, sorella del boss Carmelo (poi pentito), ed altre persone in cui si parla di Attilio Manca che sarebbe stato ucciso perché aveva riconosciuto Bernardo Provenzano, la stessa Bisognano aveva aggiunto che in molti sapevano che il boss, durante la sua latitanza, si era nascosto anche nel territorio di Barcellona Pozzo di Gotto; il vuoto investigativo in merito a determinati personaggi di Barcellona Pozzo di Gotto che prima ancora che uscissero le notizie dell’operazione in Francia di Bernardo Provenzano, avevano già ipotizzato alla famiglia Manca che la morte del loro congiunto sarebbe stata collegata ad una visita medica che Attilio Manca avrebbe effettuato al capo di Cosa Nostra; la scomparsa dai tabulati telefonici di alcune telefonate di Attilio Manca ai suoi genitori negli ultimi giorni del mese di ottobre del 2003 (nel periodo in cui Provenzano veniva operato in Francia) così come l’11 febbraio 2004, il giorno prima che Attilio Manca venisse ritrovato morto e infine il vuoto investigativo sulla giornata di Attilio Manca dell’11 febbraio 2004, quel giorno il giovane urologo aveva interrotto misteriosamente i rapporti con tutti, non aveva disdetto due importanti appuntamenti e non aveva più risposto al telefono.
Parole inascoltate
Tra le tante parole dette e non dette su questo caso ci sono quelle inascoltate del tossicologo Salvatore Giancane. Per il dott. Giancane non ci sono dubbi: la morte di Attilio Manca “puzza di omicidio”. Raggiunto telefonicamente aveva elencato una dopo l’altra le gravi anomalie – a livello medico – che gravitano tutt’ora attorno al ritrovamento del corpo del giovane urologo e a tutto quello che è avvenuto dopo. Per il tossicologo mancava assolutamente “un quadro coerente” nella scena del ritrovamento del corpo: non può essere un suicidio. Esattamente quanto viene ribadito da 14 anni dai familiari del medico siciliano, dai loro legali e in ultimo dal giudice Minasi: quello di Attilio è un omicidio di Stato.
Tratto da: antimafiaduemila.com