Il settimo e ultimo episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
È facile immaginare un gruppo di persone che, dopo aver appreso la morte del medico siciliano, si siano rasserenate, come se un grosso peso fosse stato rimosso. Attilio fu il testimone scomodo di una vicenda che, se portata allo scoperto, sarebbe capace di far tremare i polsi di molti incravattati. In molti, forse, avevano sperato che Attilio, dopo aver operato Provenzano, avrebbe semplicemente continuato a fare la sua vita, con le tasche gonfie dei soldi ricevuti come ricompensa. E invece fu necessario ucciderlo, per tappare definitivamente la bocca a un possibile testimone che avrebbe potuto indicare personalità eccellenti. In molti però, nel corso degli anni, hanno preferito non vedere, battere altre piste, ignorando la verità e ripiegando su teoremi di comodo.
La storia di Attilio Manca non è ancora finita. Attraverso le testimonianze e la documentazione in nostro possesso abbiamo raccontato una storia che deve ancora concludersi. Nei prossimi mesi sarà chiaro a tutti se questo Stato vuole cercare la verità o tradirla.
Il sesto episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
Sono molti i giovani che ogni anno muoiono per overdose da eroina. Negli angoli bui delle strade o dentro edifici abbandonati, la disperazione accompagna gli ultimi istanti di vita di chi è caduto nel vortice della tossicodipendenza. Le scene, per quanto diverse, presentano degli elementi comuni: cucchiai per riscaldare l'eroina prima di iniettarla, bilancini, siringhe usate, accendini e lacci emostatici. E poi il marchio maledetto: i buchi, tanti buchi sulle braccia, sulle gambe, e quando non c'è più spazio c'è chi usa anche il proprio collo. La casa di Attilio Manca, invece, venne trovata completamente pulita: nessun bilancino, nessun cucchiaio, nessun accendino; le siringhe ancora con il cappuccio e il salva - stantuffo inserito; sul suo corpo solo due buchi, per giunta sul braccio sinistro, lui che era mancino puro e che secondo i colleghi che lo vedevano tutti i giorni, lui con la mano destra non sapeva fare assolutamente nulla.
Attilio Manca era un medico brillante e dalla vivace intelligenza. Sapeva leggere il latino senza l’aiuto di dizionari o traduttori, parlava fluentemente anche il francese ed era stato il primo chirurgo in Italia ad introdurre le operazioni alla prostata per via laparoscopica. Un uomo dalle capacità professionali indiscutibili.
I suoi colleghi escludevano che potesse fare uso di droga; la persona alla quale era legato da una relazione sentimentale non ne aveva mai avuto sentore; per non parlare del suo stato di salute che, a detta dei suoi amici e colleghi, era impeccabile, così come la sua diligenza sul lavoro.
La procura di Viterbo, per avvalorare la tesi della morte per overdose, aveva acquisito una relazione su un esame tricologico, anche detto 'esame del capello'. A detta degli investigatori, quella era la 'prova' scientifica della dipendenza di Attilio dall'eroina, ma anche in questo caso ci sono forti dubbi, dal momento che di questo esame, eseguito dal docente di tossicologia forense Fabio Centino, non è stato riportato altro se non la sua esistenza.
Al fascicolo, infatti, era stato solamente allegato un grafico dal quale si poteva "solamente prendere atto di una generica presenza di morfina in un estratto del capello di Attilio".
Ad alimentare ulteriori dubbi è la presenza di uno dei buchi provocati dalla siringa non sul braccio ma bensì sul polso.
Ma Attilio, secondo la procura di Viterbo, si sarebbe iniettato due dosi di eroina, una al polso e una al braccio; sotto l'effetto dello stupefacente avrebbe rimesso a posto i tappi salva aghi e salva stantuffo, avrebbe ripulito la casa da tutti gli oggetti per la preparazione dell'eroina e poi sarebbe morto sul letto andando sbattere il viso contro il telecomando. L'impatto avrebbe provocato, sempre secondo i magistrati, una copiosa fuoriuscita di sangue.
Sono tutti elementi che lasciano ben più di qualche perplessità e il professore Giancane le ha espresse con una constatazione estremamente inquietante.
Il quinto episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
Tra i fumi degli incensi e le immagini sacre un uomo è intento a leggere le Scritture. Le conosce bene, tanto da citarle spesso nei suoi messaggi.
Non è un sacerdote, né un pellegrino, ma un ospite; un ospite assai ingombrante.
Siamo nel Convento di Sant'Antonio da Padova a Barcellona Pozzo di Gotto.
Nel 2005, secondo una fonte confidenziale dei carabinieri di Messina, l'ospite ingombrante era Bernardo Provenzano, ed era assistito da un non meglio indicato frate.
Trattandosi di una indicazione fornita da una fonte confidenziale, qualcuno avrebbe dovuto stilare una relazione di servizio; una relazione che non si è mai trovata. Inoltre i rapporti con la fonte, per un qualche strano motivo, vennero interrotti senza una specifica ragione.
Eppure, c'erano gli elementi per ritenere che il latitante si trovava tra quelle sacre stanze.
Il Convento, come fa notare la commissione antimafia, veniva frequentato da soggetti molto vicini a Cosa nostra e da elementi importanti della famiglia mafiosa di Bagheria.
Vi erano i fratelli del frate Salvatore Massimo Ferro, tutti arrestati per mafia nell'ambito dell'operazione 'Grande Mandamento' in quanto ritenuti anelli fondamentali della catena comunicativa di Provenzano.
I Carabinieri del Ros di Messina avevano richiesto all'autorità giudiziaria di Palermo, nella persona dell'allora sostituto procuratore Michele Prestipino, di eseguire delle intercettazioni sulle “tre utenze in uso a frate Salvatore Massimo Ferro (una al Convento Sant'Antonio da Padova di Barcellona Pozzo di Gotto, l'altra al Convento Santa Maria degli Angeli di Messina e una utenza mobile intestata allo stesso Ferro).
Il 17 giugno 2005 le attività di intercettazione erano state avviate ma dismesse “per le due utenze fisse, il 13 luglio 2005, dopo neanche un mese".
Mentre "il 27 luglio successivo", dopo quaranta giorni, erano state interrotte anche le intercettazioni sul cellulare.
Il quarto episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
Il telefono squillò con una risolutezza che tagliò l'aria densa dell'ufficio del Procuratore di Viterbo. La voce era calma ma autoritaria: era l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quella telefonata segnò l'inizio di un altro capitolo sulla morte di Attilio Manca. Il suo omicidio è avvolto dalla stessa coltre nera che ha permesso la latitanza di Bernardo Provenzano. Da qui emergono voci di potere e indagini contorte che si intrecciano come fili sottili in un tessuto intricato. Sono sempre stati i giudici di Viterbo che per primi dichiararono pubblicamente l’interessamento alla vicenda da parte dell’ex Presidente della Repubblica.
Ad oggi, nessuno conosce il motivo dell’interessamento di Napolitano verso il caso di un ragazzo ufficialmente morto suicida. E che cosa si dissero il procuratore e il capo dello Stato? Domande lecite, ma cadute nel vuoto.
La presenza di nomi pesanti nel caso dell’omicidio di Attilio è una costante ed è difficile non notarli.
Anche chi ha indossato la divisa della Polizia di Stato ha avuto un ruolo in questa torbida vicenda: l’ex capo della Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, lo stesso pubblico ufficiale già condannato a 3 anni, in via definitiva, per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz.
Gava aveva erroneamente sostenuto che Manca fosse in servizio all'ospedale Belcolle nei giorni del ricovero di Provenzano a Marsiglia. Tuttavia, registri ospedalieri dimostrano il contrario, svelando altre domande e verità nascoste.
I giorni in cui è segnata la mancata presenza del giovane urologo sono quelli tra il 20 e il 23 luglio 2003, poi dal 25 al 31 luglio 2003 e infine nei giorni del 25, 26 e 31 ottobre 2003 (il 30 se ne era andato via intorno alle 15:30, prima quindi che terminasse il suo turno). L'urologo era quindi rientrato in servizio la mattina del 1° novembre. E proprio i giorni in cui il giovane urologo era assente dal lavoro coincidevano con il periodo nel quale Provenzano (tra esami preparatori, intervento alla prostata, e successivi esami di controllo) si trovava in Francia.
I giorni di assenza di Manca dall'ospedale Belcolle si trasformarono in un mosaico di indizi e coincidenze, rivelando la sua presenza in luoghi e momenti cruciali che sollevavano nuove domande sulla sua morte e sulle persone coinvolte.
Il terzo episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
Non passava giorno che Attilio Manca non sentisse telefonicamente i suoi genitori.
Saranno proprio loro a sentire per l’ultima volta la sua voce: nella mattinata dell'11 febbraio 2004, Attilio chiese loro di controllare una motocicletta che si trovava a Tonnarella, vicino a Barcellona Pozzo di Gotto.
Di questa telefonata si perderà ogni traccia.
I genitori di Attilio ne riferirono l’esistenza: la procura di Viterbo avrebbe potuto eseguire degli accertamenti con Telecom Italia, ma questo non venne fatto. Si legge tra le carte della commissione antimafia che la compagnia telefonica aveva risposto che "il tabulato potrebbe non documentare chiamate per problemi tecnici non prevedibili né rilevabili. Telecom Italia, su richiesta delle singole Autorità, è a disposizione per effettuare apposite ulteriori elaborazioni ed estrazioni di dati che possano eventualmente integrare quanto contenuto nel presente tabulato". Integrazioni che, "a quanto è dato sapere, non sono mai state richieste dall'autorità giudiziaria viterbese", ha scritto la commissione.
La Procura, invece di scavare, tesse dubbi sulla memoria della madre di Attilio, insinuando un groviglio temporale. Ma la commissione antimafia respinge questa ipotesi, ritenendola inconsistente alla luce della frequenza serrata delle comunicazioni telefoniche tra Attilio e i suoi genitori.
Nelle settimane successive all'atroce fine del figlio, i genitori di Attilio apprendono che la motocicletta menzionata nella telefonata, parcheggiata nella residenza estiva di Tonnarella, (contrada a metà strada tra i comuni di Terme Vigliatore e di Furnari, entrambi in provincia di Messina), è funzionante. Una chiamata enigmatica, dunque. Come un possibile segnale lanciato nel disperato tentativo di lasciare una traccia?
Quella telefonata, apparentemente senza senso, quindi, poteva essere il disperato tentativo di lanciare un segnale?
Nella giornata dell’11 febbraio, il suo telefono squilla in continuazione, ma lui non risponde. Una collega infermiera, preoccupata, telefona e invia SMS più volte. Anche altri colleghi cercano di mettersi in contatto con lui, ma inutilmente. A partire da quella telefonata delle 9:30 a sua madre che non risulta nei tabulati. Perché Attilio quel giorno chiude i rapporti con tutti? C’è qualcuno che glielo impedisce? E Perché? E cosa c'entra Tonnarella?
A fare riferimento a quel territorio furono le parole registrate da un'intercettazione ambientale del 13 gennaio 2007 di Vincenza Bisognano, sorella del boss barcellonese Carmelo Bisognano (oggi collaboratore di giustizia), mentre si trova in auto assieme al suo convivente Sebastiano Genovese e a una coppia di amici. I quattro iniziarono a parlare della vicenda di Attilio Manca, collegandola alla presenza di Provenzano a Barcellona Pozzo di Gotto. Uno degli uomini in macchina, Massimo Biondo, affermò con estrema certezza che il capo di Cosa nostra si nascose per un periodo proprio nella cittadina messinese e, riferendosi ad Attilio Manca, aggiunse: 'Però sinceramente, questo ragazzo era a Roma, a chi doveva dare fastidio?'. A quel punto, Vincenza Bisognano rispose: 'Perché l'aveva riconosciuto'. Il soggetto a cui si sta facendo riferimento era evidentemente il boss Bernardo Provenzano, tanto che Biondo subito dopo incalzò: 'Lo sanno pure le panchine del parco che Provenzano era latitante a Portorosa... cioè lo sanno tutti'. Portorosa è a un passo da Tonnarella. Questa intercettazione ambientale ha fatto parte di una delle opposizioni alle richieste di archiviazione della procura di Viterbo, ma la stessa procura aveva omesso di trasmettere gli atti alla direzione distrettuale antimafia di Roma.
Il secondo episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
Sulla tragica dipartita di Attilio, la Procura di Viterbo si è mossa con una superficialità degna di un romanzo.
Le indagini sono state condotte omettendo molti accertamenti indispensabili, tra cui gli esami sulle impronte digitali trovate sul luogo del crimine, gli accertamenti genetici sulle cicche di sigaretta e le analisi sulle impronte trovate sulle due siringhe usate per l'iniezione della dose letale.
Inoltre, nessuna prova è stata portata a sostegno di uso di eroina da parte di Attilio: i suoi colleghi escludevano che potesse farne uso; la persona alla quale era legato da una relazione sentimentale mai ne aveva avuto sentore; per non parlare del suo stato di salute che, a detta dei suoi amici e colleghi, era impeccabile, così come la sua diligenza sul lavoro. Nonostante tutto questo la Procura di Viterbo aveva indicato come unico responsabile una donna: Monica Mileti, indagata una decade dopo la morte di Attilio. Per anni, infatti, è stata accusata di essere l'autrice della cessione della presunta dose di eroina. Una sorta di capro espiatorio contro cui buttare tutte le colpe.
Una menzogna colossale, destinata a essere cestinata.
E cosi avvenne: il 16 febbraio 2021, dopo un lungo calvario giudiziario.
Eppure anche in quel processo sono accadute cose strane: Cesare Placanica, l'avvocato della donna, intervistato del giornalista Paolo Borrometi, dichiarò che la Procura della Repubblica di Viterbo gli disse di far confessare il reato alla sua assistita, anche se innocente. Ad oggi non risultano essere arrivate smentite ufficiali.
Se Mileti avesse confessato il reato avrebbe messo una pietra tombale sull'omicidio di Attilio.
Ma perché c'era così tanto accanimento nel voler far condannare una persona completamente estranea ai fatti?
Ad oggi non ci è dato sapere. Ma un dettaglio salta subito all'occhio: il totale disinteresse per la pista che porta a Bernardo Provenzano e ai misteri della sua latitanza.
Ad oggi esiste un documento che ricostruisce i fatti come sono realmente accaduti. Si tratta della relazione della commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura che, chissà per quale motivo, qualcuno ha cercato di censurare prima della sua pubblicazione ufficiale.
Il primo episodio del podcast sull'urologo assassinato
di Luca Grossi
Attilio Manca, nato a San Donà di Piave nel 1969, era un uomo dal sangue siciliano e dall'intelligenza vivace. Dopo una brillante carriera accademica, laureandosi con i massimi voti in Medicina presso l'Università Cattolica di Roma e specializzandosi in urologia, sembrava destinato a un futuro luminoso.
Nella prima puntata della serie "Uccidetelo! L'omicidio di Attilio Manca" ANTIMAFIADuemila racconta la storia della sua morte. Ufficialmente classificata come suicidio, si rivela essere un enigma avvolto da troppe stranezze e incongruenze. Le siringhe trovate nella sua casa, il corpo "apparecchiato" per una scena preimpostata, tutto sembra indicare che Attilio Manca è stato vittima di un assassinio camuffato. Ma chi avrebbe potuto avere interesse a uccidere un uomo così rispettato e stimato?
E qui entra in gioco il caso del boss corleonese Bernardo Provenzano, un'ombra che si insinua nella tragedia: il boss era malato e aveva bisogno di cure mediche, e Attilio Manca, si sarebbe rifiutato di curarlo prima di un intervento chirurgico a Marsiglia. Potrebbe essere questa la chiave per comprendere il mistero della sua morte?
Le dichiarazioni di Carmelo D'Amico, collaboratore di giustizia, rivelano un coinvolgimento sinistro di Cosa Nostra e degli apparati deviati dello Stato. Un assassinio orchestrato in modo subdolo per coprire la latitanza di Provenzano.
E c'è persino un velato riferimento a un agente dei Servizi, Giovanni Aiello, soprannominato "Faccia da mostro". Coincidenza o elemento chiave in questo intricato puzzle?
Tratto da: antimafiaduemila.com
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