di Lorenzo Baldo
Il Ministro Orlando replica all’interrogazione parlamentare sulla strana morte del giovane urologo
“E’ la dimostrazione che è un delitto di Stato!”. Al telefono, Angelina Manca è affranta, amareggiata e profondamente disillusa. La risposta del Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, all’interrogazione parlamentare (a firma: Santangelo, Donno, Gaetti, Bertorotta, Lezzi, Paglini, Crimi, Marton, Moronese, Morra) si muove sui binari tracciati da Ponzio Pilato. E’ indubbiamente la prima volta che un ministro della Repubblica interviene sul caso del giovane urologo barcellonese. Ma leggendo le cinque paginette inviate dal Gabinetto del Ministro non si può non rimanere basiti per l’appiattimento sulle tesi della Procura di Viterbo, già ampiamente sconfessate dal minuzioso lavoro di ricerca dei legali della famiglia Manca (Fabio Repici e Antonio Ingroia). Per il Ministro è del tutto scontato che la morte di Attilio Manca sia da “ricollegare eziologicamente all’assunzione volontaria di sostanze stupefacenti (nella specie eroina) di cui il predetto risultava abituale consumatore”. Dello stesso tenore le considerazioni sull’acquisizione di alcuni tabulati telefonici e sull’integrazione della consulenza medico legale “i cui esiti non apparivano, tuttavia, significativi ai fini di una diversa lettura della vicenda”. Idem per la questione delle impronte rilevate, o per le tracce biologiche nell’appartamento del dott. Manca, i cui esiti, manco a dirlo “si rivelavano negativi”. Subito dopo è la volta di un copioso copia-e-incolla di una richiesta di archiviazione della Procura di Viterbo fondata sui clichè dei procuratori Pazienti e Petroselli fortemente ostili a tesi alternative al suicidio per droga. Uno dopo l’altro vengono snocciolati teorie e teoremi già smontati dagli avvocati Repici e Ingroia, ma che per il Ministro, o chi per lui, evidentemente sono inoppugnabili. Uno su tutti: le fonti di prova per ritenere Attilio Manca un “assuntore abituale di stupefacenti” riconducibili a due “amici” del giovane urologo, Guido Ginebri e Salvatore Fugazzotto. Lo stesso Ginebri, è colui che ha presentato ad Attilio Monica Mileti, accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina che lo ha ucciso, ed è amico del cugino di Attilio Manca, Ugo, nonché co-imputato assieme a quest’ultimo al processo “Mare Nostrum – droga” (Ugo Manca è stato condannato in primo grado a 9 anni per traffico di stupefacenti, e assolto in appello, Guido Ginebri è stato assolto in primo grado con sentenza divenuta definitiva). Salvatore Fugazzotto è a sua volta amico di Monica Mileti ed è colui con il quale Attilio Manca parla al telefono il 10 febbraio 2004 prima di recarsi misteriosamente a Roma. Per il Ministro Orlando a nulla valgono le decine di testimonianze di colleghi di lavoro del dott. Manca che hanno attestato la falsità della presunta tossicodipendenza di Attilio, meglio tenere in considerazione queste due affermazioni così “provvidenziali” per avvalorare la tesi del medico tossico. Nel documento viene quindi esclusa categoricamente la pista Provenzano sottolineando che “le risultanze processuali inducono a ritenere che tutte le piste investigative sono state percorse in maniera consapevole e che l’omessa valorizzazione di alcuni percorsi argomentativi, ben lontano dal configurarsi quale condotta imputabile ad inerzia o negligenza, costituisce piuttosto il risultato di una opzione ragionata, tesa a privilegiare le ricostruzioni suscettive di approdare ad esiti concreti in termini di ragionevole ed altamente verosimile verificazione del fatto, evitando di insistere su approfondimenti di premesse fattuali incentrate sulla illazione e sulla congettura e, per ciò stesso, prognosticamente improduttive di utili sviluppi”. Allo stesso modo totale disinteresse per il mancinismo del dott. Manca. E infine “i tempi tecnici di trattazione” del caso “appaiono non esorbitanti” e perciò nei confronti dei procuratori Pazienti e Petroselli “non appaiono configurabili condotte di negligenza e trascuratezza nella conduzione delle indagini”. Liberi tutti: Attilio Manca era un drogato part-time che una sera ha deciso di alzare il tiro e ci è rimasto stecchito. Fine della storia. Con tanto di “rassicurazione” sull'attenzione “che sarà prestata al caso, anche in relazione agli sviluppi del procedimento incardinato presso la Procura della Repubblica di Roma”. Certo è che questa “rassicurazione” appare come una sorta di anticipazione di un'eventuale archiviazione del fascicolo in mano al Procuratore Aggiunto Michele Prestipino e alla sostituta Maria Cristina Palaia.
La replica di Santangelo
Immediata è giunta la replica del senatore Maurizio Santangelo (M5s). “Vergognosa!”, è la definizione che Santangelo dà alla risposta del Ministro. Nel suo comunicato il parlamentare ricorda i punti nevralgici della sua interrogazione ai quali non è stata data alcuna risposta. “Avevo chiesto ai Ministri tra i quali Orlando se era a conoscenza dei fatti relativi alle discrepanze del verbale redatto dalla squadra mobile di Viterbo, guidata all'epoca da Salvatore Gava, dove si asserisce che Attilio Manca era di turno in ospedale nei giorni in cui il boss si trovava in Francia per sottoporsi all'operazione chirurgica, mentre dai registri delle presenze dell'Ospedale ‘Belcolle’ di Viterbo è stata verificata dal giornalista Paolo Fattori del programma ‘Chi l'ha visto?’ l'assenza dal nosocomio”. Nessuna risposta. Per il senatore del Movimento Cinque Stelle, “sicuramente, restano ragionevoli dubbi a partire dall'operato dei periti, restano le narrazioni di alcuni pentiti e quindi non si comprende dove possano stare le eventuali ‘premesse fattuali incentrate sulla illazione sulla congettura’”. Per Santangelo la famiglia Manca “merita sicuramente la ‘verità’ che molti probabilmente conoscono”. “Che senso avrebbe - si domanda il senatore - continuare ad insistere nel chiedere al dott. Roberti della Procura Nazionale Antimafia, di esercitare i propri poteri di coordinamento e di indagine tra le Procure Distrettuali Antimafia di Roma, Palermo e Messina, affinché si assicuri un efficace coordinamento e scambio di informazioni fra i predetti Uffici inquirenti”. Per Santangelo sarebbe stata necessaria “una risposta organica e risolutiva, che definisse la vicenda del giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, rinvenuto cadavere nella sua abitazione di Viterbo il 12 febbraio 2004, specie se poi come dichiarato dalla stessa Presidente On. Bindi della Commissione antimafia ‘La morte di Attilio Manca a tutto può essere attribuibile, tranne che a una morte per overdose di eroina’”. Il senatore ha così concluso: “Non indietreggio e dopo la vergognosa risposta ricevuta a distanza di due anni, continuerò a sollecitare le risposte non avute. Mio Fratello Attilio Manca non è un suicida!”.
Carta canta
Per comprendere a fondo la gravità della risposta di Orlando basta riprendere in mano il caso Manca attraverso la stessa interrogazione parlamentare di Santangelo che si è basata fortemente sul libro di Luciano Mirone “Un suicidio di mafia”. Le evidenti contraddizioni si commentano da sole e qualificano l’atteggiamento del Ministero della Giustizia.
L’interrogazione parlamentare*
E’ il 25 novembre 2014 quando il senatore del Movimento 5 Stelle, Vincenzo Santangelo, presenta un’interrogazione parlamentare rivolta ai ministri dell’Interno e della Giustizia firmata assieme ad alcuni suoi colleghi. Nel 2013 altre due interrogazioni relative al caso Manca erano state depositate: dagli stessi parlamentari 5 Stelle e dal senatore del Pd Giuseppe Lumia. «In data 12 febbraio 2004 – legge in aula Santangelo – l’urologo Attilio Manca di 34 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), è stato ritrovato cadavere nella sua abitazione di Viterbo, città dove lavorava presso il locale ospedale “Belcolle”. La sua morte è stata ricondotta ad un notevole quantitativo di eroina, mista a tranquillanti e alcool, questi ultimi trovati in piccole quantità. L'effetto sinergico di questi 3 elementi, secondo il tossicologo professor Fabio Centini dell’Università di Siena, che ha svolto l’esame, avrebbe portato alla morte Attilio Manca». Nel documento viene sottolineato «che nel braccio sinistro della vittima vennero trovati 2 “buchi”, fatto peraltro anomalo in quanto il dottor Manca risultava essere mancino, dettaglio confermato, oltre che dai familiari, anche dagli amici e dai colleghi. L’altro elemento che ha portato gli inquirenti a seguire solo la pista del decesso per “inoculazione volontaria” è la presenza a pochi metri dal cadavere di 2 siringhe con tappo salva ago e salva stantuffo ancora inseriti». «In un primo momento, senza che la Procura di Viterbo sentisse il dovere di ordinare il rilevamento delle impronte digitali sulle siringhe ritrovate nell’appartamento dell’urologo, il caso fu rubricato come decesso causato da overdose di eroina mista a tranquillanti e ad alcool, praticamente un suicidio, se si pensa che il dottor Manca, grande conoscitore della scienza chimica, sapeva perfettamente la reazione che avrebbero causato questi 3 elementi nel suo organismo. Il pubblico ministero Renzo Petroselli chiese al Gip (giudice indagini preliminari) l’archiviazione, richiesta respinta dallo stesso giudice per le indagini preliminari per una serie di palesi incongruenze presenti nell’indagine, fatte notare dalla famiglia del dottor Manca tramite il legale, avvocato Fabio Repici, al quale nel 2013 si è aggiunto l’avvocato Antonio Ingroia. L’attuale imputata Monica Mileti, oggi sotto processo, è accusata di essere stata la spacciatrice che avrebbe ceduto la dose letale di stupefacente ad Attilio Manca».
Strane autopsie, impronte e tabulati spariti
Santangelo evidenzia che «molte sono le sviste, le omissioni e le incongruenze presenti nell’inchiesta e nell’attuale processo, come detto di seguito: il mancato rilievo delle impronte digitali sulle siringhe per ben 8 anni; il motivo (“Si tratta di siringhe troppo piccole per potere rilevare delle impronte digitali”) con cui la Procura della Repubblica di Viterbo (segnatamente il pm Renzo Petroselli e il procuratore Alberto Pazienti) si trincera per giustificare detta gravissima omissione, quando un qualsiasi investigatore può spiegare che le impronte si possono prendere da superfici infinitamente più piccole, non solo le impronte ma anche il dna; l’assenza di tracce digitali sia della vittima che di altre persone, sulle stesse siringhe, quando queste, soltanto nel 2012, sono state analizzate; l’omissione della notizia (a detta dei familiari della vittima), subito dopo il rinvenimento del cadavere, del ritrovamento delle siringhe, e la contemporanea versione di “decesso per aneurisma cerebrale”, circostanze che (sempre secondo i familiari) avrebbero indotto gli stessi a non nominare un perito per contestare eventuali anomalie durante l'autopsia». Secondo l’analisi dei senatori firmatari «il sequestro immediato del computer, degli appunti e delle ricette mediche della vittima, scattato grazie al rinvenimento di quelle siringhe, è il segnale evidente di una morte violenta che gli inquirenti, a detta dei familiari del Manca, si sarebbero guardati bene dal manifestare subito». Santangelo si sofferma quindi su quelle che definisce «le strane dinamiche con le quali si sarebbe svolta l'autopsia (effettuata dalla dottoressa Dalila Ranalletta, moglie del primario di Attilio Manca, ovvero il dottor Antonio Rizzotto)», così come sul «confronto delle foto, scattate dalla Polizia pochi minuti dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Attilio Manca, con il referto autoptico compilato dalla dottoressa Ranalletta», documenti che, a tutti gli effetti, vanno in contraddizione tra loro. Nell’interrogazione vi è ampio spazio per «la netta discrepanza fra le versioni riportate da numerosi testimoni (fra cui i genitori del Manca) da un lato, e la Squadra Mobile di Viterbo dall’altra, circa l’ultima telefonata effettuata dal medico alla famiglia la mattina dell'11 febbraio 2004, giorno prima del ritrovamento del cadavere. Questa telefonata, secondo la famiglia Manca, sarebbe sparita dai tabulati». Secondo i genitori e diversi amici del Manca, la telefonata si sarebbe verificata tra le 9:30 e le 10:30 dell'11 febbraio, mentre secondo la Squadra Mobile il giorno prima. Di fatto quella telefonata non risulta nei tabulati acquisiti dall’Autorità giudiziaria. Ma nelle note di accompagnamento della stessa Telecom si legge che “il tabulato potrebbe non documentare chiamate per problemi tecnici non prevedibili né rilevabili”. Un dettaglio non da poco, che lascia aperte le possibilità di eventuali “manomissioni”. Nel documento depositato si parla del «totale “vuoto” investigativo sull’intera giornata dell'11 febbraio, in cui, secondo il medico legale e il medico del 118, dottor Giovan Battista Gliozzi, sarebbe morto Attilio Manca. Proprio su queste ore fondamentali, la Procura di Viterbo, malgrado gli input investigativi dell’avvocato Repici, non ha fatto assolutamente luce, anzi, in una integrazione della relazione autoptica presentata qualche tempo dopo dalla dottoressa Ranalletta, seppure come ipotesi, viene retrodatato il giorno della morte di Attilio Manca». E’ importante evidenziare che il dott. Gliozzi scriveva che il decesso risaliva orientativamente a dodici ore prima di quando era stato rinvenuto il corpo (nel verbale della Polizia quell’orario era fissato alle 11:45 del mattino del giorno 12 febbraio). “Il cadavere presentava evidenti macchie emostatiche su tutto il corpo ed in particolare sulle mani e sui piedi”, aveva scritto Gliozzi nel suo referto. Al di là del fatto che il medico non accenni a evidenti segni di violenza, viene evidenziato un ulteriore particolare: “si notava che il volto risultava essere compresso sul materasso”. Qualcuno aveva forse premuto con forza la testa di Attilio sul letto? Dal canto suo la dott.ssa Ranalletta - nel primo referto - scriveva che la morte del giovane urologo risaliva genericamente al giorno stesso del ritrovamento del cadavere e cioé al 12 febbraio. In quello successivo affermava invece che “l’epoca della morte” era stimabile “in via orientativa, tra le dodici e le quarantotto ore prima dello stesso sopralluogo” e cioé l’11 o addirittura il 10 febbraio. Una evidente contraddizione con il dato oggettivo - trascritto nel referto autoptico - che indicava la presenza di “materiale alimentare poltiglioso” all’interno dello stomaco del povero Attilio; un “dettaglio” decisamente non insignificante, visto che per gli esperti di medicina legale lo svuotamento completo dello stomaco si verifica entro tre ore circa dall’ingestione del pasto. Non va dimenticato che la stessa Ranalletta aveva scritto di essere giunta nell’appartamento in via Monteverdi alle ore 14:00 quando invece nel rapporto della Polizia di Viterbo veniva evidenziata la sua presenza alle ore 11:45. Per i firmatari dell’interrogazione è del tutto innegabile «l’assoluta mancanza di prove riguardo alla “inoculazione volontaria” di eroina con la quale la vittima, secondo degli investigatori, si sarebbe “suicidata”».
L’esame tricologico
Nell’interrogazione parlamentare viene marcata la gravità della «comparsa, a un anno e mezzo dalla morte di Attilio Manca, di un esame tricologico (si tratta dell’analisi effettuata su un campione di capello della vittima, per stabilire pregresse assunzioni di stupefacenti)». «Appare quantomeno singolare che un “esame irripetibile” come questo emerga un anno e mezzo dopo, senza che al legale dei familiari della vittima, né agli stessi familiari, nel frattempo, venga notificato (a loro dire) un atto di importanza fondamentale come questo». Rivolgendosi ai ministri della Giustizia e dell’Interno i senatori puntano il dito sulla «ostinata sicurezza dei magistrati di Viterbo di insistere sull’“inoculazione volontaria” di eroina, puntando sulla presunta “positività” dell'esame tricologico, assurto a “prova determinante”, quando al massimo potrebbe essere considerato un indizio. In ogni caso, anche volendo ammettere che esista un esame tricologico e che avesse dato esito positivo, questo non dimostra affatto che la sera dell’11 febbraio 2004 sia stato il dottor Manca ad “inocularsi volontariamente” l’eroina, per giunta nel braccio sbagliato».
Monica Mileti
Nel documento si evidenzia ugualmente «l’assoluta mancanza di prove in merito alla presunta cessione di eroina da parte di Monica Mileti ad Attilio Manca. Basta leggere i verbali della Polizia per scoprire delle lacune disarmanti: innanzitutto sul passato dell’imputata, nel senso che non si sa se la donna sia un’ex tossicodipendente o una spacciatrice (di fatto l’unico dato emerge dalle dichiarazioni della stessa Mileti che parla di un suo pregresso uso di stupefacenti, nda), e poi sull’assenza nel suo appartamento degli oggetti utilizzati per spacciare. Nella casa della Mileti, infatti, in seguito a una perquisizione della Polizia, sono stati trovati un paio di cucchiaini sporchi di sostanza marrone (che dagli atti consultati non risultano essere stati analizzati, ma che la Polizia definisce “presumibilmente eroina”) e una confezione di siringhe “uguali a quelle trovate nell’appartamento di Attilio Manca” (sempre secondo la Polizia). E però nell’abitazione della signora Mileti non sono stati trovati gli oggetti classici dello spacciatore: innanzitutto la droga, poi i bilancini e le bustine. Eppure, in base a quei 2 cucchiaini sporchi e a quella confezione di siringhe, gli inquirenti hanno costruito il teorema Monica Mileti uguale Attilio Manca».
Ugo Manca
Un’attenzione particolare viene quindi rivolta al ruolo del cugino dell’urologo, Ugo Manca. «Una impronta palmare di Ugo Manca è stata ritrovata dalla Polizia scientifica nell’appartamento di Attilio – sottolinea Santangelo –, circostanza giustificata con una operazione di varicocele effettuata dal cugino alla quale lo stesso Ugo Manca si sarebbe sottoposto quasi 2 mesi prima. Non si è mai capito perché Ugo Manca si sia fatto operare dal cugino che egli stesso, sentito dai magistrati di Messina, giudica un “drogato, capace di bucarsi anche con la mano destra”». «La figura di Ugo Manca – prosegue il senatore – ci conduce alla cittadina siciliana di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina (una delle più mafiose della Sicilia), e ai poteri forti come il circolo paramassonico “Corda fratres”, frequentato dai boss Giuseppe Gullotti (mandante, fra l’altro, del delitto del giornalista Beppe Alfano), Rosario Pio Cattafi, ma anche da personalità rispettate della città. Basta seguire il modus operandi di Ugo Manca per comprendere alcune dinamiche di questa incresciosa vicenda». «La Polizia di Barcellona - si legge ancora nell’interrogazione parlamentare -, invece di informare i genitori di Attilio del decesso del figlio, il 12 febbraio 2004, informò i genitori di Ugo, allora sotto processo per traffico di stupefacenti. Ugo Manca, essendo venuto a conoscenza dai genitori si precipitò a Viterbo, chiedendo prima alla famiglia di Attilio, quindi, in seguito al diniego da parte della stessa, alla magistratura di Viterbo, addirittura il dissequestro della casa del cugino, con il pretesto di prendere degli indumenti per rivestire la salma. Pertanto uno degli indiziati principali è stato liquidato dalla Polizia di Barcellona Pozzo di Gotto (incaricata da quella di Viterbo) con una quindicina di righe di verbale di sommarie informazioni, che possono corrispondere a cinque minuti di chiacchierata». I senatori ribadiscono che «la mafia barcellonese è una delle più pericolose del nostro Paese, sia per le centinaia di morti ammazzati registrati in questi decenni, sia perché ha fabbricato il telecomando della strage di Capaci che nel 1992 ha visti uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta. Quel telecomando è stato consegnato brevi manu da Giuseppe Gullotti al boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca. Questo fa comprendere quanto sia forte il legame fra Barcellonesi e Corleonesi; il suddetto legame è forte al punto da indurre due super latitanti ricercati dalla Polizia di tutto il mondo, come Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano a trovare rifugio a Barcellona durante la latitanza». Nel documento vengono ulteriormente affrontate «le incredibili ritrattazioni degli ex amici barcellonesi di Attilio Manca appartenenti al “sistema Corda fratres”, e amici stretti di Ugo Manca; per esempio, la testimonianza di Lelio Coppolino che prima smentisce “categoricamente” la tossicodipendenza di Attilio Manca e diversi anni dopo la afferma con decisione, senza che gli inquirenti si pongano il perché di tali ritrattazioni».
La visione di Viterbo
Molta attenzione viene ugualmente rivolta al «singolare modo di procedere degli inquirenti di Viterbo (ai quali, nel 2013, si affianca il Gip che con una ricostruzione assai fantasiosa sposa la tesi dell'overdose da eroina sostenuta dalla Procura)», così come per «l’estromissione, nella prima udienza del processo, dalla parte civile dei familiari di Attilio Manca (una estromissione proposta addirittura dal pm, che solitamente nelle aule di giustizia sta dalla parte delle vittime e dei suoi familiari) con la seguente motivazione: “La famiglia non ha subito alcun danno dalla morte del congiunto”».Una decisione indiscutibilmente gravissima.
Il legame con Provenzano
Santangelo sottolinea quindi che il boss mafioso Francesco Pastoia «uomo fidato di Provenzano, morto impiccato in modo misterioso nel carcere di Modena (il 28 gennaio 2005, nda), la cui tomba, pochi giorni dopo, è stata profanata da un incendio doloso appiccato presso il cimitero di Belmonte Mezzagno (Palermo), è stato intercettato, mentre parlava degli omicidi commessi dal suo capo, in riferimento ad un’operazione alla quale il boss corleonese fu sottoposto a Marsiglia disse genericamente: «Provenzano è stato da un “dottore”» senza specificare il nome, né il luogo di queste cure». Di fatto il 20 febbraio 2005 la “Gazzetta del Sud”, nel citare le intercettazioni ambientali di Francesco Pastoia, indicava “un dottore” che secondo quanto riferito da Pastoia “sarebbe andato a trovare Provenzano nel suo rifugio straniero”. Due anni dopo, il 17 dicembre 2007, era stato arrestato l'infermiere Gaetano Lipari, nipote del boss Pino Lipari, e impiegato all'Asl 6 di Bagheria, con l’accusa di aver curato Provenzano durante la latitanza. Ma del “dottore” che sarebbe andato a visitarlo addirittura all’estero nessuna traccia. «A giudizio degli interroganti, alla luce del fatto che dal processo celebratosi a Palermo, che ha ricostruito il viaggio di Provenzano dalla Sicilia alla Francia per l’intervento chirurgico, sono stati accertati i nomi dei 3 medici francesi intervenuti ufficialmente per operare il capomafia, ma non del “dottore” (al singolare, come viene indicato da Pastoia) intervenuto prima dell'intervento con delle visite per diagnosticare la patologia, e dopo l'intervento per le cure da prestare al paziente, in quel periodo latitante e nascosto con le false generalità di Gaspare Troia, è logico ritenere che almeno un dottore, possa avere effettuato queste prestazioni, a meno che non si ritenga che il boss, con un titolo di studi da terza elementare, si sia diagnosticato da solo una patologia e non abbia avuto bisogno di cure post operatorie da alcun medico specializzato». «Sono almeno 2 – prosegue Santangelo – le persone che hanno suffragato e arricchito di particolari la parole di Pastoia: la prima è identificabile in tale Vittorio Coppolino di Barcellona Pozzo di Gotto, padre di Lelio Coppolino, uno dei migliori amici di Attilio, al punto da riceverne le confidenze più intime. Vittorio Coppolino, appena una settimana dopo il decesso del medico siciliano (quando ancora nessuno, compresi i magistrati, conosceva il segreto dell'operazione di Provenzano a Marsiglia) disse ai genitori del dottor Manca: “Siete sicuri che Attilio non sia stato 'suicidato' perché ha operato Provenzano?” (dal canto suo Coppolino ha sempre smentito di essersi rivolto ai coniugi Manca con quelle precise parole, nda). La seconda persona è identificabile nel pentito del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, che ai pubblici ministeri di Palermo, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia, ha riferito che la morte di Attilio Manca non è stata causata da un suicidio per overdose (come asseriscono i magistrati di Viterbo) ma è da collegare all'operazione alla quale è stato sottoposto Provenzano. Ovviamente quando si parla di “operazione” ci si riferisce non solo all'intervento (al quale Manca potrebbe avere assistito), ma all'intero decorso ante e post operatorio al quale il boss è stato sottoposto». Per quanto riguarda Giuseppe Setola, boss camorrista del potente clan dei Casalesi (che dopo essersi inizialmente pentito ha deciso misteriosamente di ritrattare) Santangelo ricorda che «da dichiarazioni rese nei mesi scorsi ai pubblici ministeri di Palermo Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia, ha sostenuto di aver appreso da un compagno di cella che l'urologo Attilio Manca di Barcellona Pozzo di Gotto, allora in servizio presso l’ospedale “Belcolle” di Viterbo non si sarebbe suicidato con un'overdose di eroina, ma sarebbe stato ucciso dalla mafia; dalle parole del collaboratore di giustizia, Manca sarebbe stato il medico che avrebbe curato il super boss corleonese prima e dopo l'operazione».
Le parole di Setola
C’è un dato oggettivo: l'interrogatorio di Setola si è svolto nel carcere di Milano-Opera il 4 luglio 2014. In quella occasione il camorrista ha riferito che nel 2007, durante la sua detenzione nel carcere di Cuneo, aveva instaurato un buon rapporto con il boss Pippo Gullotti. Setola ha quindi spiegato che in un’occasione, durante un momento di socialità con lo stesso Gullotti, quest’ultimo gli aveva raccontato di “un oncologo” che aveva visitato all’estero Provenzano per problemi alla prostata e che successivamente era stato ucciso con un’iniezione di eroina. Il Gullotti aveva precisato – senza fare il nome – che l’assassino di quel medico era un suo affiliato di Barcellona Pozzo di Gotto. Quel verbale è stato immediatamente trasmesso alla Dda di Roma, così come a quella di Napoli e alla Procura di Viterbo. Poi, però, a dicembre 2014 Setola ha ritrattato quanto dichiarato nei mesi precedenti.
La Commissione antimafia, la (falsa) nota della Polizia e quei buchi neri
«La Commissione d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere – si legge ancora nell’interrogazione – sta approfondendo gli aspetti che riguardano la latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto dei boss Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano». «Dalle indagini svolte dalla redazione del programma di Rai Tre “Chi l'ha visto?” – prosegue Santangelo – risulta che Attilio Manca non era in ospedale nei giorni del ricovero di Bernardo Provenzano a Marsiglia; l’assenza di Attilio Manca dall’ospedale “Belcolle” di Viterbo, è stata verificata dal giornalista Paolo Fattori del programma “Chi l’ha visto?”, dopo aver controllato il registro delle presenze dello stesso nosocomio. I giorni in cui è segnata la mancata presenza di Attilio Manca, sono quelli del 25, 26 e 31 ottobre 2003, mentre il 30 ottobre, lo stesso se ne era andato via intorno alle ore 15,30, prima quindi che terminasse il suo turno, per poi rientrare in servizio la mattina del 1° novembre del 2003. Il verbale della Squadra Mobile di Viterbo, guidata all’epoca dal dottor Salvatore Gava, asserisce invece che l'urologo siciliano era di turno in ospedale nei giorni in cui il boss si trovava in Francia per sottoporsi all'intervento chirurgico. Quindi, a parere degli interroganti, o Attilio Manca era davvero in ospedale oppure il capo della squadra mobile ha attestato il falso». «A quanto risulta agli interroganti il dottor Gava, capo della squadra mobile di Viterbo nel 2001, in occasione del G8 di Genova, fu accusato di avere fatto parte della “catena di comando” dei funzionari di Polizia che nella scuola Diaz di Bolzaneto furono protagonisti del pestaggio di decine di inermi pacifisti che avevano sfilato durante la giornata. In particolare Gava è stato accusato di aver redatto un falso verbale sul ritrovamento, all’interno della stessa scuola, di alcune spranghe e molotov, che però, secondo i magistrati, non erano state introdotte dai pacifisti. L’ex capo della squadra mobile di Viterbo, per questo reato, è stato condannato definitivamente in Cassazione a 3 anni e 8 mesi di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Tali novità sono certamente importanti per il nuovo quadro investigativo degli inquirenti e quindi, per la riapertura del caso sulla morte dell'urologo Attilio Manca. Recentemente il procuratore Giuseppe Pignatone della Direzione distrettuale antimafia di Roma ha aperto un fascicolo di indagini preliminari “modello 45”, inserendo il caso “nel registro degli atti non costituenti notizia di reato”». Al di là del fatto che ad una prima verifica dei tabulati telefonici del 2003 possa risultare la presenza a Viterbo del giovane urologo nei giorni di fine ottobre, restano inesplorate diverse zone d’ombra: l’assenza, in alcuni giorni, del riferimento geografico delle “celle telefoniche” alle quali si è agganciato il cellulare di Attilio, così come la mancanza di una refertazione di tabulati su altre utenze telefoniche riconducibili ad Attilio Manca, al padre di quest’ultimo, o ad altri personaggi chiave di questa vicenda; per non parlare di strani “vuoti” telematici dentro i quali sono scomparse alcune telefonate fondamentali per riscontrare le testimonianze dei genitori di Attilio Manca.
Il testimone scomodo
C’è un dettaglio importante che non è stato inserito in questa minuziosa interrogazione parlamentare. Si tratta di un’intercettazione ambientale del 13 gennaio 2007 (confluita nell’operazione antimafia di Messina denominata “Vivaio”), di Vincenza Bisognano, sorella del boss barcellonese Carmelo Bisognano (oggi pentito), mentre si trova in auto assieme al suo convivente Sebastiano Genovese e ad una coppia di amici. A un certo punto i quattro iniziano a parlare della morte di Attilio Manca associandola alla presenza di Provenzano a Barcellona Pozzo di Gotto. Un certo “Massimo”, seduto in macchina, afferma con sicurezza che il capo di Cosa Nostra è stato nascosto per un periodo proprio nella cittadina messinese. La sorella di Bisognano non lo contraddice e “Massimo”, riferendosi ad Attilio Manca aggiunge: “Però sinceramente, stu figghiolu era a Roma a cu ci avia a dari fastidio? (questo ragazzo era a Roma, a chi doveva dargli fastidio?, nda)”. E la Bisognano risponde: “Perché l’aveva riconosciuto”. Il riferimento è proprio a Bernardo Provenzano, tanto che “Massimo” subito dopo aggiunge: “Lo sanno pure le panchine del parco che Provenzano quando era latitante era a Portorosa… cioé lo sanno tutti”. Portorosa si trova tra il golfo di Milazzo e Tindari, a pochissimi chilometri da Barcellona Pozzo di Gotto, e soprattutto a un passo da Tonnarella (sempre nel messinese), là dove i Manca avevano la loro residenza estiva. Un’ulteriore conferma al “teorema Provenzano”?
A futura memoria.
*tratto dal libro “Suicidate Attilio Manca”
Tratto da: antimafiaduemila.com