di Lorenzo Baldo
Nel 15° anniversario della morte del giovane urologo un’accorata richiesta ai “testimoni silenti”
“A chi mi ha confidato di conoscere dettagli importanti sulla morte di Attilio e poi non li ha riferiti ai magistrati chiedo solo di ripensarci. Glielo domando come una madre consapevole di non avere più tanto tempo. Ma se anche noi non ci saremo non importa. Non è mai troppo tardi per far emergere la verità. Quello che conta è restituire giustizia ad Attilio”. Non si è ancora spento l’eco delle parole di Angelina Manca: un appello che la madre di Attilio Manca ha rivolto alcuni giorni fa a chi a suo tempo le aveva raccontato dettagli importanti sulla morte del figlio, per poi tacerli all’autorità giudiziaria. Torna in mente la testimonianza di un ex investigatore del messinese di cui si era venuti a conoscenza cinque anni fa grazie allo scrittore Luciano Mirone. Alla presentazione del suo libro “Un suicidio di mafia. La strana morte di Attilio Manca”, lo stesso Mirone aveva raccontato di aver conosciuto casualmente, durante la stesura del volume, un ex investigatore che aveva lavorato nella zona di Messina nel periodo in cui Attilio era stato trovato morto. “Questa persona - aveva spiegato lo scrittore - autorevole e affidabile, mi aveva detto esattamente che Attilio Manca era stato prelevato in elicottero e portato nella zona di Tonnarella, in una struttura privata che qualche medico locale aveva messo a disposizione, e lì aveva visitato Bernardo Provenzano”. Nel suo intervento Luciano Mirone aveva evidenziato che secondo la testimonianza di quest’uomo, il “prelevamento” di Attilio Manca sarebbe avvenuto “prima dell’intervento chirurgico di Marsiglia (a cui si era sottoposto Bernardo Provenzano ad ottobre del 2003, ndr), quando cioè si doveva fare la diagnosi (al boss, ndr)”. “L’ex investigatore - aveva spiegato Mirone - era andato oltre, dicendomi che quando era morto Attilio Manca, il Ros dei Carabinieri aveva fatto delle indagini e aveva scoperto che potevano esserci dei collegamenti tra la sua morte e la latitanza del capo di Cosa Nostra a Barcellona Pozzo di Gotto. Ad un certo punto era arrivato un diktat dall’alto: ‘Prego trasmettere immediatamente atti relativi alla morte di Attilio Manca e alla latitanza di Bernardo Provenzano’. Una richiesta che poteva voler dire soltanto una cosa: o chiedono gli atti per depistare, oppure perché si vuole fare giustizia”. La conclusione dello scrittore era stata alquanto tranciante: “Due giorni dopo, non avendo ancora ricevuto nulla dal Ros, questo personaggio molto in alto aveva scritto nuovamente per ricevere gli atti ‘senza ulteriori indugi’. E senza ulteriori indugi questi atti erano stati trasmessi. Da quel momento le indagini sia sulla morte di Attilio che sulla latitanza di Provenzano a Barcellona Pozzo di Gotto si sono arenate”.
Brandelli di verità
E’ tutto da ricomporre il mosaico nel quale si intravedono mandanti ed esecutori dell’omicidio di Attilio Manca, ma i pezzi che si cominciano ad incastrare tra di loro non lasciano spazio all’immaginazione. Tra i dati oggettivi illustrati dai legali dei Manca, Fabio Repici e Antonio Ingroia, nella loro opposizione all’archiviazione del caso - puntualmente ignorati dal Gip di Roma Elvira Tamburelli - c’era anche il resoconto di una testimonianza del 2016 che chiamava in causa proprio l’ex investigatore della provincia di Messina entrato in contatto con Luciano Mirone. Il documento racchiudeva la deposizione di chi aveva incontrato la persona che cinque anni fa aveva rilasciato a Mirone quelle dichiarazioni a dir poco esplosive. Successivamente quello stesso investigatore aveva accennato le medesime informazioni ai familiari del giovane urologo facendo intendere loro che poteva essere il punto di svolta definitivo per far emergere una volta per tutte la verità. Poi però la paura aveva preso il sopravvento e quelle sue dichiarazioni non erano mai state cristallizzate in un verbale davanti ai magistrati. Nella relazione dei due legali venivano elencati - a mo’ di conferma - i punti salienti del racconto dell’ex investigatore: un suo superiore gli avrebbe detto che prima di essere stato operato, Provenzano sarebbe stato trasportato in un tir, nascosto tra alcune piante, per essere visitato da Attilio Manca. L’urologo sarebbe stato prelevato in elicottero (non è chiaro se da Viterbo o da altri posti), e sarebbe stato condotto in uno studio medico della zona del messinese per effettuare la visita medica all’ex capo di Cosa Nostra. Il superiore dell’investigatore gli avrebbe quindi raccontato che successivamente, dagli alti vertici dell’Arma dei Carabinieri, sarebbe stato imposto uno stop alle indagini sul caso Manca. Nella relazione dei due legali emergeva inoltre un altro dato. La persona che nel 2016 aveva incontrato l’ex investigatore gli aveva chiesto ulteriori dettagli sul suo racconto, ma quest’ultimo aveva opposto un netto rifiuto. Il motivo di tale silenzio sarebbe stato collegato alla sua grande paura di possibili ritorsioni - mafiose, ma non solo - nei suoi confronti. Il documento depositato si concludeva con l’esplicita richiesta al Gip di un approfondimento a riguardo così da fugare qualsiasi dubbio sulla sua eventuale falsità. Certo è che, una volta accertata la veridicità di quelle dichiarazioni, bisognava immediatamente predisporre indagini mirate. Un giudice giusto e leale avrebbe quindi cercato con ogni mezzo di fare luce sulle indicazioni dell’ex investigatore. Ma così non è stato, tant’è che il Gip ha posto il sigillo dell’archiviazione. Ma quale Stato-mafia dietro la morte di Attilio Manca, è solo un suicidio a base di droga! E le prove incontrovertibili che si tratta di un omicidio, con tanto di molteplici evidenze dell’impossibilità che la morte dell’urologo sia riconducibile ad una overdose provocata dall’assunzione volontaria di eroina? Per il giudice sono solo ipotesi “fantasiose”. La tesi della procura di Viterbo - corroborata dalla sentenza di condanna nei confronti di Monica Mileti - e quella dei magistrati capitolini che hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione del caso Manca, si sono fuse in un’unica risoluzione, per altro avallata dalla maggioranza della Commissione antimafia della scorsa legislatura. Una risoluzione convergente che ha una connotazione a dir poco salomonica. Come se i magistrati di Viterbo e di Roma, avallati dalla maggioranza della precedente Commissione antimafia, volessero accuratamente evitare di percorrere i solchi tracciati dall’ex investigatore (e ancora prima dalle indicazioni dei legali dei Manca) per la stessa paura a dover affrontare questioni spinose. E’ del tutto evidente che immergersi nella palude dello Stato-mafia - capace di uccidere, rimanere impunito e poi infangare la memoria della vittima - sia rischioso per tutti, anche per chi amministra la giustizia. Quei magistrati che si ostinano invece ad applicare il principio sacrosanto della legge uguale per tutti - indagando anche sul cuore nero dello Stato - hanno pagato un prezzo altissimo sulla loro pelle: condanne a morte, delegittimazione e isolamento; con l’aggiunta di vedere tanti loro colleghi voltarsi dall’altra parte. Ma ciò non toglie che non è ancora finita. Sul caso Manca si può ancora indagare, a partire dalla riesumazione della salma, una richiesta rimarcata recentemente dal tossicologo bolognese Salvatore Giancane per il quale sulla morte del giovane urologo permangono troppe ombre. E proprio su questa specifica istanza è stata realizzata recentemente una apposita petizione pubblica. Nel frattempo nuovi muri di gomma vengono eretti per contrapporsi alla pretesa di verità dei familiari del giovane urologo e dei loro legali; per i quali vi sono prove tangibili che quello di Attilio Manca è un omicidio di mafia e Stato. A far cadere questi muri sarà unicamente la verità. Che deve essere raccontata - da chi la conosce ma non ha ancora parlato - ai magistrati che avranno il coraggio di andare fino in fondo per risolvere questo caso. Il riferimento esplicito alla Direzione Nazionale Antimafia da parte dei legali dei Manca è alquanto circostanziato. E’ indubbiamente questa la sede giudiziaria più idonea da dove è possibile ripartire per fare luce su questo mistero. Il tempo è questo. Solamente così sarà possibile restituire dignità e giustizia ad Attilio e alla sua famiglia. Ma anche al nostro intero Paese.
Tratto da: antimafiaduemila.com
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