Lettera al Presidente della Corte di appello di Roma a pochi giorni dal nuovo processo contro Monica Mileti
Una richiesta accorata. Racchiusa in una lettera inviata ieri via pec al Presidente della Corte di appello di Roma - Terza sezione penale. E’ al dott. Gianfranco Garofalo che Gino ed Angela Manca si rivolgono dopo che i loro legali hanno ricevuto l'avviso dell'udienza del processo di appello nei confronti di Monica Mileti fissata per il prossimo 7 gennaio. Dal canto suo la richiesta del Sostituto procuratore generale Marcello Monteleone è stringata: confermare la condanna a 5 anni e 4 mesi per la Mileti, imputata di aver ceduto ad Attilio Manca, le due dosi di eroina che, nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004, hanno stroncato la vita di questo prestigioso urologo siciliano. I due anziani genitori chiedono con forza al dott. Gianfranco Garofalo di rifiutare “di dare seguito alla farsa iniziata a Viterbo e che pronunci la sentenza solo dopo aver acquisito tutte le prove. A partire dall'audizione di quei sei collaboratori di giustizia” che non sono mai stati ascoltati nel processo viterbese per la morte di Attilio Manca. Vengono quindi citati collaboratori del calibro di Carmelo D'Amico, Giuseppe Setola, Giuseppe Campo, Stefano Lo Verso, Antonino Lo Giudice ai quali recentemente si è aggiunto il pentito milazzese Biagio Grasso. Il paradosso tutto italiano è che la famiglia Manca non è più parte civile al processo contro la cinquantenne romana difesa dall’avvocato Cesare Placanica. Che, nel mese di dicembre del 2017, ha presentato il ricorso in appello contro la condanna della sua assistita, evidenziando l’assenza di “prove certe”.
“Siamo stati esclusi all'inizio del dibattimento di primo grado dal Giudice di Viterbo - spiegano Gino ed Angelina - su richiesta del Pubblico ministero Petroselli. A causa della nostra estromissione dal processo, la sentenza nei confronti dell'imputata è stata pronunciata senza l'acquisizione di prove fondamentali, che pure erano a conoscenza del pubblico ministero e della difesa dell'imputata”. “Noi siamo certi - ribadiscono entrambi - che nostro figlio Attilio sia stato ucciso e che quella droga gli sia stata iniettata da terzi. Del resto, nostro figlio era mancino, compiva ogni atto con la sinistra e, come hanno riferito tutti i suoi colleghi, sarebbe stato incapace di farsi l'iniezione con la mano destra. E, d'altra parte, se fosse stato lui a usare le due siringhe trovate a casa sua, sarebbero state rilevate le sue impronte su quelle siringhe. Risulta, invece, che le siringhe non riportavano impronte di Attilio”.
Nella missiva viene quindi evidenziato un dato oggettivo: molto prima della sentenza di primo grado a carico di Monica Mileti, i collaboratori di giustizia citati nella lettera avevano dichiarato che Attilio Manca“è stato ucciso, da mafiosi e da appartenenti ai servizi segreti”. Seguendo le loro indicazioni l’ipotesi più plausibile resta quella che il giovane urologo - vista la sua altissima professionalità - sia stato chiamato ad assistere l’ex capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano (prima, dopo o durante l’intervento per il tumore alla prostata che quest’ultimo ha subito in Francia nel 2003), per poi essere eliminato in quanto testimone della rete di protezione para-mafiosa creatasi attorno al boss.
I genitori del giovane urologo barcellonese evidenziano quindi un tassello fondamentale in questo puzzle scomposto: “Quelle dichiarazioni (dei cinque collaboratori di giustizia, ndr) sono state raccolte da uffici giudiziari di Messina, Palermo, Caltanissetta e Roma. Le conoscevano a Viterbo il Pubblico ministero e la difesa degli imputati. Eppure nel processo a carico di Monica Mileti nessuno ha voluto che quei collaboratori di giustizia fossero sentiti”.
“Non riusciamo a comprendere - scrivono ancora i coniugi Manca - per quali motivi l'imputata abbia rinunciato a prove che erano a lei senz'altro utili”. Per Gino e Angelina“l'unica risposta” plausibile è quella che la stessa Mileti ci aveva dato qualche anno fa nell’unica occasione in cui aveva risposto al telefono. “Io Attilio l’ho amato - aveva confidato - ma ora basta, mi lasci vivere… mi ha creato così tanti problemi averlo visto quel giorno e aver accettato quel passaggio…”. Alla domanda se si rendesse conto di essere una sorta di “capro espiatorio” dietro il quale si nascondevano altre persone, aveva alzato la voce per affermare con convinzione: “Si, lo so…”. E dopo aver insistito sul punto: “E' il momento di parlare, lo faccia per un padre e una madre che rischiano di morire prima ancora di avere un brandello di verità”, la Mileti era rimasta un momento in silenzio, per poi troncare di getto la conversazione. “Se, però - sottolineano i Manca - Monica Mileti può fare ciò che ritiene anche contro di lei, quello che non possiamo comprendere, e che anzi rifiutiamo ostinatamente, Signor Presidente, è che la Giustizia italiana possa pronunciare sentenze impedendo che nei processi entrino le prove sui fatti oggetto del giudizio”. Un vero e proprio obbrobrio che i genitori di Attilio Manca definiscono “il suicidio morale della Giustizia”.
“Vogliamo credere - concludono - che la Corte di appello di Roma rifiuterà di dare seguito alla farsa iniziata a Viterbo e che pronunci la sentenza solo dopo aver acquisito tutte le prove. A partire dall'audizione di quei sei collaboratori di giustizia”, così come attraverso un’audizione minuziosa della stessa Mileti.
La parola passa ora alla Terza sezione della Corte di appello di Roma. Che, accogliendo la richiesta dei Manca, può finalmente restituire la speranza a due genitori, sfibrati da anni di dure battaglie giudiziarie, che chiedono solamente la verità prima di morire. Accogliere la loro legittima richiesta - che rispecchia i primari parametri giudiziari – può significare l’inizio di un effettivo percorso di giustizia per Attilio Manca. Allo stesso modo la Corte di appello ha la possibilità di dare così un forte segnale all’appello di oltre 30.000 cittadini – tra cui importanti personalità del mondo della politica, dell’antimafia, dell’arte e della cultura – che hanno chiesto espressamente di non archiviare il caso. Un segnale che Gino, Angelina e Gianluca Manca attendono da quasi 17 anni assieme a tutti coloro che si sono uniti in questa battaglia di civiltà.
In foto di copertina: Attilio Manca insieme ai genitori, Gino e Angelina, il giorno della sua laurea
Tratto da: antimafiaduemila.com
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